
Oltre cinquanta anni fa il Club di Roma (un’associazione di scienziati, umanisti e imprenditori uniti nella preoccupazione per le sorti del pianeta viziato dal consumismo) teorizzò i limiti dello sviluppo, aprendo la strada all’economia sostenibile in generale e all’economia circolare in particolare.
Oggi con il rapporto “La trasformazione è praticabile – Come raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile all’interno del nostro pianeta” viene data una concreta valutazione alla duplice adozione nel 2015 degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDGs) e dell’accordo sul clima di Parigi, come una svolta globale.
Non abbiamo mai avuto un piano di sviluppo così universale per persone e pianeta.
Per la prima volta nella storia umana il mondo ha concordato una roadmap democraticamente adottata per il futuro dell’umanità, che mira a raggiungere obiettivi di sviluppo socio-economico socialmente inclusivi e altamente ambiziosi, all’interno di obiettivi ambientali definiti a livello globale.
La grande ambizione dell’umanità dovrebbe essere quella di puntare a uno sviluppo mondiale inclusivo e prospero all’interno di un sistema terrestre stabile e resiliente. Per questo occorre raggiungere il maggior numero possibile di SDGs entro il 2030, e quindi continuare a seguire una traiettoria globale sostenibile ben oltre i prossimi 11 anni.
Purtroppo, per ora, la teoria e le conferenze prevalgono sulla pratica attuazione. Siamo indietro, l’economia consumista, l’economia del cieco PIL, non lascia spazio all’EC.
La qualità del futuro dipende prima di tutto dalla responsabilità di ciascuno di noi, nell’acquisto e nel consumo di prodotti servizi, in ottica di sostenibilità.
Tra i megatrend individuati dalla programmazione per la Ricerca e Sviluppo in Europa l’EC è al livello dell’intelligenza artificiale, della robotica, della genomica, della blockchain e altro.
Questo vale soprattutto per l’Italia che si posiziona ai vertici dell’innovazione nell’ambito dell’EC. La politica economica italiana dovrebbe trarre insegnamento dal percorso che ha consentito all’EC di eccellere.
Fatto certo è che la Ricerca porta Innovazione; l’Innovazione aumenta la Produttività, quindi la Competitività; essere competitivi ottimizza le possibilità di Crescita e Sviluppo.
In generale l’Italia investe in Ricerca 1,25% del PIL rispetto alla media UE del 2%; la Germania spende quasi il triplo dell’Italia (3,2% del PIL), la Corea del Sud più del triplo (4,5% del PIL). Anche sul fronte dei ricercatori l’Italia sta in coda con 4,9 unità ogni mille lavoratori, meno della metà dei Paesi OCSE (8,2), ancora meno della Germania (9) e della Francia (10); i nostri poi sono demotivati da stipendi bassi, precarietà e carenza di merito. I migliori se ne vanno dove trovano condizioni migliori. Possiamo capire perché l’Italia non cresce e ristagna, senza ricerca non c’è resilienza rispetto alle fasi economiche avverse. Occorre riferirsi alla logica con cui abbiamo conquistato il primato tecnologico e quindi l’affermazione dell’EC non solo in Europa. Per rilanciare l’Italia occorre puntare sulla Ricerca.
Anche le Imprese hanno le loro responsabilità quando non investono abbastanza in Ricerca e propongono modelli di consumo che generano aspettative effimere e illusorie, se non fallaci, inadeguate a garantire benessere reale nel tempo.
Le Imprese italiane hanno, in gran parte, sostanzialmente preferito intervenire più sui processi che sui prodotti, limitando le attività a bassa intensità R&S, in settori maturi; così come la spesa pubblica, che dal 2008 al 2016 ha contratto gli stanziamenti del 20% trascurando anche l’Università a cui li ha ridotti del 14%. Carente in maniera grave la domanda pubblica che privilegi e sostenga la ricerca e gli investimenti innovativi delle Imprese in settori chiave.
Dai nostri brevetti, che non sono pochi, concretizziamo introiti irrisori; analogamente la produttività scientifica (articoli e citazioni) raccoglie finanziamenti inferiori alla media; le nostre competenze non vengono opportunamente valorizzate.
La carenza di investimenti in R&S determina una ridotta domanda di profili qualificati e una loro bassa remunerazione. Negli ultimi anni molte Imprese hanno realizzato investimenti limitati in tecnologie innovative perché richiedono tempi lunghi di conversione al profitto. Effetto collaterale è il tasso di laureati pari alla metà della media europea; troppi laureati in settori non necessari.
Pubblico e Privato a braccetto nell’indifferenza verso le leve per la crescita.
In questo quadro negativo e pessimista non rientra l’EC, fortunatamente all’avanguardia tecnologica.
La carenza di materie prime ci ha obbligato a risparmiare e riciclare.
Dobbiamo partire da qui, non perdere la supremazia, diventare piuttosto leader incontrastati eliminando ostacoli, lacci e lacciuoli.
Ultima considerazione, molto significativa. L’EC apporta coesione sociale e migliora il senso civico; infatti si colloca nella vita quotidiana, stimola la voglia di riscatto individuale dal degrado sociale, trova partecipazione attiva dei giovani, funziona se tutti collaborano costruttivamente e positivamente; l’esempio migliore contagia gli altri perché l’effetto concreto, anche se non prossimo, è già visibile e piace.