Secondo l’Economist Intellegence Unit (EIU) negli ultini 15 anni la democrazia ha perso terreno, nel mondo e in Europa.
Il “Democracy Index 2019” è costruito con un’analisi incrociata tra diverse fonti autorevoli e ricerche qualificate, sintetizzando in sessanta indicatori la situazione nei diversi Paesi.
L’Italia esce davvero male, terzultima nell’occidente europeo, davanti solo a Grecia e Turchia.
Nel mondo altre democrazie sono sorprendentemente risultate migliori: Uruguay, Mauritius, Costa Rica, Cile, Estonia, Botwana, Capoverde, Repubblica Ceca e altri 27 Stati.
L’Italia eccelle tra i difetti comuni come la politica poco accessibile, chiusa in una cerchia ristretta, il pluralismo incompiuto e le libertà civili. La politica debole consente la prepotenza della finanza e delle grandi imprese, sopratutto tecnologiche estere.
Insomma non rientriamo tra i Paesi considerati pienamente democratici come quelli del nord Europa e rimaniamo classificati come “flawed”, imperfetti e fallaci.
Paghiamo il malfunzionamento del governo, la bassa qualità e la inadeguata competenza della classe dirigente governativa, la cultura politica senza ideali e senso dello Stato, la faziosità dei media, effetto della loro impossibile indipendenza; gli italiani non vogliono pagare per l’informazione e leggono poco.
A questa situazione delineata dallo EIU si aggiunge l’evidenza che non reagiamo, che abbiamo stabilito strategie prioritarie, succubi delle pressioni clientelari; della visione a breve termine della politica, costretta dalle continue chiamate elettorali; i politici interagiscono solo con i propri elettori. La crescita stenta per la burocrazia oppressiva e gli investimenti fermi; la lentezza della giustizia (troppi avvocati, leggi contorte e litigiosità eccessiva); il risparmio o rimane inattivo o è investito preferibilmente all’estero. Il debito pubblico, tra i più gravosi al mondo, restringe gli spazi di manovra per una politica espansiva.
L’Italia sembra non avere scampo, sopratutto se non trova leader che creino nuova forte fiducia e affrontino riforme radicali nel nome della verità e dello spirito che animò la ricostruzione del dopoguerra, fiducia convinta e speranza concreta.
Due strade dovremmo poter imboccare.
Una Europa che si convinca ad unificare gli sforzi per recuperare il gap tecnologico con una politica comune, economica, militare, fiscale per acquistare peso e non subire le bordate tra Stati Uniti, Cina e Russia, aggravata dalla globalizzazione interpretata in ordine sparso. Poi l’implementazione di una vera transizione all’economia sostenibile dove in partenza l’Europa è avvantaggiata, tanto come consenso sociale quanto come innovazione già disponibile.