
Quello che più preoccupa è l’informazione fallace.
Così la descrive con lucidità Andrea Granelli.
Una fallacia è un argomento che sembra corretto ma non lo è realmente.
È un errore argomentativo nascosto, di solito costruito ad arte per convincere un interlocutore. La fallacia non è dunque propriamente un ragionamento, dal momento che si basa su inferenze invalide; ma non per questo è poco efficace nel convincere. La sua forza sta nell’essere un meccanismo “quasi-corretto”, una mezza verità che inganna perché vi ritroviamo frammenti di verità. Questa è la retorica dei numeri e delle immagini.
Cinque sono le fallacie classiche – fallacie ahinoi usate con grande frequenza – che contribuiscono a suggerire una specifica (e spesso fuorviante) interpretazione di una serie di dati:
Ignorare quei dati che disturbano il significato: spesso vengono etichettati come errori di misura e tolti dalla serie. Questa fallacia viene spesso usata per risolvere il cosiddetto “problema dei fatti”: la presenza di alcuni dati scomodi che rischiano di invalidare una specifica teoria.
Manipolare i dati aggiungendo alla serie considerata ulteriori dati costruiti ad hoc in grado di confermare quanto si vuole dimostrare. I fautori di questa “regolazione” dell’osservazione (che viene motivata dal fatto che la stessa rilevazione dei dati può essere fallace e incorrere in errori di misura) citano spesso una frase di Albert Einstein: «Se i fatti e la teoria non concordano, cambia i fatti». Peccato che l’attribuzione non sia affatto dimostrata, come si accorse a sue spese Ivanka Trump quando, nel giugno 2013, la citò in un suo tweet.
Definire in modo vago il fenomeno che si vuole misurare: è il classico ambito del discorso politico che promette azioni future dando indicatori di impatto ingannevoli. Un bell’articolo di Tim Harford sul Financial Times (Where the Truth Lies with Statistics, 12 maggio 2017) ne analizza diversi: “aumenteremo le tasse dei ricchi”, “accetteremo solo gli immigrati con elevate professionalità”, “taglieremo le spese inutili”, …
Estrapolare il significato dei dati a un contesto su cui non si applicano: nella retorica classica viene chiamata “fallacia induttiva”. La serie di numeri mette in luce una proprietà che vale per un contesto ma il cui risultato viene applicato a un altro contesto, simile ma non uguale (magari con diversi fattori di contorno, differenti condizioni iniziali, …). È il rischio di passare da una condizione particolare (es. vale per la città di Milano) a una generale (es. vale per tutte le città italiane).
Usare i dati come “fumo negli occhi”: i dati che si presentano per giustificare un’asserzione non sono realmente rilevanti, ossia il legame concettuale e logico tra i dati in premessa e la conclusione e solo apparente. Nella retorica classica viene chiamata “fallacia di rilevanza”. Spesso questa tecnica viene anche usata come falsa pista, come “distrazione”, per deviare l’attenzione su altri temi (magari lontani dall’oggetto della discussione). È la classica situazione delle perfomance review dove un manager – nonostante i suoi risultati siano al di sotto delle attese – presenta numeri e tabelle per dimostrare che non è poi andata così male, visto il contesto peggiore di quanto di pensasse, e che – in ogni caso – egli ha fatto il massimo possibile e quindi i cattivi risultati (ma sono poi così cattivi vista la situazione? …) non sono proprio colpa sua.